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Dove vanno a finire le storie che non raccontiamo? Se è vero, da un lato, che ciò che non raccontiamo non esiste, è anche vero che possiamo verosimilmente immaginare una dimensione, una sorta di intercapedine tra la realtà e il non-ancora, in cui tutto esiste in potenza. Qui, ogni cosa ha una sua energia che danza, come gli elettroni di un atomo, e aspetta solo di entrare in quell’orbita che la configuri come storia.

Sembra accadere questo nell’operazione letteraria compiuta da Marino Magliani con il romanzo “Il bambino e le isole” (ed. 66than2nd), omaggio a Italo Calvino nel centenario della sua nascita. 

Magliani parte da una dichiarazione di Duilio Cossu, amico d’infanzia di Calvino, circa l’idea dello scrittore mai portata a compimento di realizzare un racconto che parlasse di un bambino che giocava a palla nei carruggi di Sanremo, nei pressi della ferrovia. Il pallone rotola e finisce oltre i binari, il bambino vuole recuperarlo, ma non deve disubbidire al divieto della madre di attraversare le rotaie. Si incammina così per trovarne la fine. 

Se una definizione di storia può essere “un campo magnetico che si forma intorno a un’illuminazione”, come sostiene Alessandro Baricco in “Le vie della Narrazione”, “non è mai una linea, ma uno spazio”; così Magliani ci conduce in un viaggio onirico, in cui sogno, immaginazione e realtà s’intrecciano in un itinerario per la Liguria orizzontale, quella che, percorrendo i binari della ferrovia, ci mostra il paesaggio delle isole della Corsica. Le coordinate del tempo perdono consistenza, per lasciare il posto al rapporto tra i personaggi e il luogo che abitano. D’altronde, per restare su un piano dove la coscienza allenta le maglie della ragione, il mondo interno, e ancor di più la sua componente inconscia, ha un linguaggio iconico, è costituita da immagini, come sosteneva James Hillman. Inoltre, non ha una logica lineare.

Personaggi della realtà, come Cossu, Walter Benjamin, Carlo Levi, compaiono così come omaggi, ma anche come maschere, funzioni psichiche che cooperano alla costruzione delle vicende di un bambino che è un po’ fantasia un po’ fantasma, nel rievocare lo stesso Calvino con la sua capacità inventiva, la sua tenacia, il suo pensiero libero, che non concepisce catene.

A tal proposito, metafora dalla ricchissima carica emotiva è rappresentata dalla figura dei binari invalicabili e al contempo forse raggirabili, nell’impresa di recuperare la palla sfuggita. Il divieto della madre non impedisce al bambino-Italo di andarsela a prendere la sua palla, a costo di percorrere tutta la regione.

“Voleva la libertà e la libertà esisteva soltanto attraverso il culto della libertà”, scrive Magliani, per aggiungere in un altro passaggio: “pur di non disubbidire alla madre aveva ubbidito alla letteratura”.

E viene in mente proprio la funzione che ha il linguaggio nelle nostre vite e l’uso che ne facciamo quando raccontiamo una storia. Il confine sancito dal divieto fa pensare alla cultura con il suo concetto di limite, che consente di iscrivere la nostra mente nel registro del simbolo, all’interno del principio di realtà (per dirla con Freud). Ma viene in mente anche lo scarto del linguaggio, che arriva fino a un certo punto nella sua funzione rappresentativa, così come lo stile nella Letteratura è il processo attraverso il quale si prova a risolvere il problema dello scarto, il modo che ciascuno trova per essere libero in un sistema di significazione circoscritto, per dire e non dire nell’incessante negoziazione tra Luce e Ombra, tra bisogno di autoespressione e necessità di autocensura. Ma è anche la vita degli adulti, con il compito imprescindibile di andare avanti, accettando e dando per assodate alcune regole, concedendosi solo la nostalgia della mamma, di un’infanzia che non torna ma che si prova a inseguire. Talvolta è illusione, paura, stallo; altre volte è più semplicemente (e meno male) il coraggio che si ha nel tenere in vita il bambino dentro di sé sfamandolo e intrattenendolo con ciò che chiede.

E se la Letteratura fosse un gioco? Sì, perché per giocare bisogna relazionarsi con l’Altro da sé (un bambino o una palla), perché il gioco, come diceva Bruno Munari, è una cosa seria.

Giulia Letizia Sottile

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