Marcello Sorgi, cosa l’ha spinta a scrivere questo libro su Berlinguer? Lei stesso ammette che il leader del Pci, dopo la morte, è stato uno dei personaggi politici più studiati.
“È così. Nei quarant’anni trascorsi dalla tragica fine sul palco del comizio a Padova, Berlinguer è stato crocifisso, riabilitato, rivalutato, studiato, e adesso mitizzato. Forse la mitizzazione non è la condizione migliore per stabilire cosa ci fu di buono e cosa meno nella sua politica. Ma se vuol sapere cosa mi ha convinto a scrivere, direi che è stata grande folla, anche di giovani che ai tempi di Berlinguer non c’erano, alla mostra fotografica organizzata da Ugo Sposetti e dall’Associazione Berlinguer a Roma. Una mostra visitata a sorpresa anche da Meloni, segno che il rispetto di cui gode ancora Berlinguer viene da tutte le parti”.
E dopo tutto quel che ha letto e sentito da testimoni dell’epoca, c’era ancora qualcosa da scoprire su Berlinguer?
“Me lo sono chiesto quando mi sono messo a scrivere. E mi son detto subito che non c’era bisogno, né spazio per un altro saggio. In ogni caso scrivere un saggio non toccava a me. Io potevo scrivere un racconto, il racconto dei dodici anni più importanti della vita di Berlinguer, dal 1972, quando diventò segretario, al 1984 della morte improvvisa. E potevo scrivere questo racconto perché quegli anni li ho vissuti da cronista, sono stato testimone dei passaggi più drammatici, la rottura con i sovietici, la messa in pratica del “compromesso storico”, il suo fallimento, il ritorno all’opposizione del Pci, lo scontro con Craxi”.
Sono questi i momenti principali della vita di Berlinguer?
“Sì lo sono. Anche se Berlinguer visse molte altre esperienze importanti da giovane e fu anche segretario della Gioventù comunista mondiale negli ultimi anni dello stalinismo. Era vero, come diceva ironicamente Pajetta, uno dei più prestigiosi dirigenti comunisti che veniva dalla stagione dell’antifascismo clandestino e aveva trascorso nove anni in carcere per questo, che “Berlinguer si era iscritto giovanissimo alla Direzione del Pci”.
Cosa accadde a Mosca nel febbraio 1976?
“Berlinguer si presentò all’assemblea mondiale dei partiti comunisti con un discorso che si poteva considerare eretico. Chiedeva ‘autonomia’ e libertà di realizzare il socialismo anche con l’ausilio di partiti che socialisti non erano. In pratica, era andata a spiegare ai russi il ‘compromesso storico’”.
E i sovietici come reagirono?
“Lo fischiarono, cercarono di impedirgli di finire il suo discorso. L’indomani la Pravda, il giornale ufficiale del PCUS, tradusse la parola ‘autonomia’ con ‘multiformismo’, un’altra cosa. E Breznev convocò Berlinguer al Cremlino, anche se non si seppe mai cosa si dissero”.
Ci furono altre occasioni di incontro tra Berlinguer e i russi?
“Certo. Berlinguer continuò ad andare in vacanza in Unione Sovietica fino al 1979. Assegnavano a lui e alla sua famiglia una ‘dacia’, cioè una villa importante. E lui raccomandava ai suoi familiari di non parlare tra i muri di casa perché temeva fossero imbottiti di microspie. Non si fidava dei russi. A D’Alema aveva detto: ‘Ricordati tre cose. Le caramelle che ti offriranno hanno sempre la carta appiccicosa. I loro piani per l’agricoltura non funzionano mai. E poi mentono sempre, sempre’”.
Poco dopo arrivò la rottura definitiva.
“Nel 1981, dopo il colpo di Stato in Polonia, Berlinguer andò a Tribuna politica e dichiarò che “la rivoluzione del 1917 aveva esaurito la sua spinta propulsiva. Contemporaneamente ordinò a Cervetti, il dirigente del Pci che teneva i rapporti economici con i russi, di chiuderli. Anche se ci volle ancora un po’ prima che il canale dei finanziamenti sovietici al Pci fosse chiuso veramente”.
Parliamo del “compromesso storico”. Lei racconta che Berlinguer, quando decise di cominciare a sperimentarlo in Sicilia, subì una fiera opposizione dall’interno del partito. In che termini?
“Io scrivo de L’Ora di Palermo, il giornale di proprietà del Pci dove ho cominciato a lavorare, che aveva condotto durissime campagne contro la mafia, fino a subire un attentato alla tipografia, tre giornalisti assassinati tra cui Mauro De Mauro, e si era battuto contro le contaminazioni mafiose di democristiani come Ciancimino e Lima. Per un certo periodo la redazione de L’Ora divenne la cassa di risonanza delle resistenze interne all’attuazione del ‘compromesso’. Anche se l’accordo tra Berlinguer e Sciascia maturò in quell’ambiente”.
Come andò la trattativa?
“Berlinguer venne a Palermo alla vigilia delle elezioni del ‘75 – fu quella tra l’altro la prima volta che lo incontrai – e vide Sciascia a casa di Nisticò, il direttore del giornale. Si videro per nemmeno un’ora. Sciascia non stava bene in salute, aveva la febbre alta e non era molto ben disposto alla conversazione. Fatto sta che non si scambiarono una parola. A metà della cena Sciascia chiese permesso con la scusa dell’influenza e si congedò. Berlinguer, pochi minuti dopo fece lo stesso. Nisticò non seppe resistere: com’è andata, domandò al segretario, ormai sulla porta. E quello: ‘Benissimo!’. Il silenzio sardo e quello siciliano avevano prodotto un’intesa carica di ambiguità, che si ruppe un anno dopo”.
Ma col senno di poi, non fu un azzardo quello di Berlinguer, di proporre un’alleanza dopo che Dc e Pci erano stati avversari per quasi trent’anni?
“Sì e no. In un certo senso era la continuazione della politica togliattiana di alleanza con i cattolici. Poi – Berlinguer non lo diceva, ma ne era consapevole – l’Italia era ancora una colonia metà vaticana e metà americana. E il Vaticano e gli Usa erano due fortissime centrali anticomuniste. Inoltre Berlinguer era rimasto colpito dall’esperienza del governo di sinistra in Cile, abbattuto da un colpo di Stato voluto anche dalla Cia. In Grecia erano andati al potere i colonnelli. In Italia c’erano stati tentativi falliti di golpe e tentativi riusciti di destabilizzazione come le bombe di Piazza Fontana a Milano e Piazza della Loggia a Brescia. Insomma Berlinguer qualche ragione di cercare un rapporto di reciproca legittimazione con la Dc, per poi magari tentare un’alternativa, ce lo aveva. La strategia del ‘compromesso’, in sintesi, era questa”.
Ma alla fine fallì. Perché?
“Si passò in tempi assai brevi dalle elezioni del ‘76 in cui in Parlamento l’unica maggioranza possibile era quella composta dai due maggiori partiti, che da soli rappresentavano più del 70 per cento dei voti, a quelle anticipate del ‘79, in cui il Pci pagò l’aver sostenuto il governo monocolore Dc guidato da Andreotti con la perdita di un milione e mezzo di voti: il che rese possibile il ritorno al centrosinistra. Questo fu l’inizio e la fine del ‘compromesso’. Ma in mezzo c’è il sequestro e l’assassinio da parte delle Brigate rosse di Moro, che era l’unico vero interlocutore democristiano di Berlinguer. Con la morte di Moro muore anche il dialogo tra questi due uomini così diversi e la strategia che avevano condiviso”.
Perché dopo la fine del ‘compromesso’ venne la stagione dello scontro tra Berlinguer e Craxi?
“Perché erano fatti per non piacersi e non intendersi. Berlinguer considerava Craxi un prepotente. Craxi con uno dei suoi che lo spingeva a discutere con Berlinguer, una volta reagì: ‘Ma cosa vuoi che parli con uno che a casa non ha neanche la tv a colori?’. Non era vero. Ma era un fatto che Berlinguer e La Malfa, nel ‘76, in Parlamento, si erano opposti all’introduzione della tv a colori in Italia”.
Resta un’ultima domanda: perché ha intitolato il suo libro ‘San Berlinguer’?”.
“Se fosse un giallo non glielo direi, basta leggere l’ultima pagina del libro. Ero stato uno dei sei cronisti inviati dal Messaggero ai funerali di Berlinguer il 13 giugno 1984. Una folla enorme, cortei su cortei, e tanta gente che scandiva ‘Enrico, Enrico, Enrico’. Come se non si volessero rassegnare alla sua morte o volessero promettergli che avrebbero continuato in suo nome. Molti anni dopo, facevo il direttore della Stampa, non ero più in prima linea, ma fui egualmente colpito dai funerali di Papa Wojtyla il 5 aprile 2005. Andai quasi in incognito, mi mescolai alla folla, tra il Lungotevere, via della Conciliazione e San Pietro. Era piena di polacchi disperati che urlavano: ‘Santo subito!’. E furono presto accontentati, perché Wojtyla fu proclamato santo in soli nove mesi, un record per la Chiesa. Così, mentre stavo lì, non so perché, mi tornarono in mente i comunisti che gridavano ‘Enrico, Enrico, Enrico!’. E pensai tra me e me, vedi, in fondo anche il popolo comunista ha avuto il suo santo: San Berlinguer!”.
INTERVISTA a cura di Laura Rizzo
Il racconto dei dodici anni più importanti della vita di Berlinguer, visti e vissuti in prima persona da un giovane cronista, durante il suo eccellente excursus professionale